Audur Ava Olafsdottir

La donna è un’isola

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La donna è un’isola è un romanzo in cui la sospensione diventa quasi un personaggio. Opera seconda della scrittrice islandese Audur Ava Olafsdottir, è narrata in prima persona dalla protagonista, di cui ignoriamo il nome. Sappiamo solo che ha trentaquattro anni, conosce ben undici lingue, è sposata e intrattiene una tresca ormai al capolinea.

E’ lei che ci conduce, con una prosa piana, nella pioggia islandese di novembre (il titolo originale è appunto Rigning ì nòvember, pioggia a novembre) e sembra quasi di sentirsela addosso, nel colletto della camicia o negli stivali umidi, nei capelli fradici e sul viso, mentre la seguiamo in viaggio da ovest a est verso il suo passato, con Tumi, il figlio sordomuto della sua più cara amica.

La pioggia e la nebbia nelle giornate corte e buie di quest’isola misteriosa sono complici del non detto: gli eventi rimangono sospesi tra il lettore e la narratrice che omette invece di svelare, butta il sasso e nasconde la mano. Sappiamo cosa c’è nel carrello della spesa e quali vestitini compra al piccolo Tumi, quanto gelato mangiano o come si può cucinare un’oca. Ma non abbiamo nessun aiuto per comprendere l’indifferenza della narratrice ai comportamenti del marito, che per certi versi è un surrogato di insensibilità ed egoismo. Non capiamo cosa la faccia essere così in balia degli eventi, o delle persone, come quando un amico le suggerisce di fare bungee jumping per trovare se stessa (risultato, braccio fratturato).

Le conseguenze di cui leggiamo non scaturiscono da un passato ma da un non sequitur chiaro solo all’autrice. Questo intervallo narrativo rende il personaggio, forse nelle intenzioni enigmatico, nella realtà bizzarro, a tratti piatto, e gli eventi spesso scollegati.

Il racconto principale è intercalato da un corsivo che, nonostante la natura grafica gentile, nasconde un evento doloroso che ha conseguenze sul comportamento della protagonista, e sulla fine del suo matrimonio. Questo racconto nel racconto, fatto di flash back, presenta nebbia a tratti e invece di gettare luce in aiuto del lettore rischia di confonderlo, il che, nel buio novembrino islandese, può rivelarsi una scelta infelice.

Al presunto minimalismo stilistico non ne corrisponde uno lessicale: spesso i biscottini, i laccettini, i merlettini rompono quell’armonia lineare “nordica” svolazzando sulla pagina come mosche fastidiose, ma questo può dipendere anche dalla traduzione.

Di una cosa si può esser certi: la protagonista è una donna che affascina perché, ovunque incontri un uomo, innesca un corteggiamento che, a sua discrezione, può finire in posizione orizzontale. La protagonista è anche buona: quando la mamma di Tumi, la sua più cara amica Audur (sarà un caso ma si chiama come l’autrice) chiede di portarle in ospedale dei superalcolici pur essendo incinta di sei mesi e avendo già avuto un figlio sordo muto, la nostra eroina non fa un plissé e le recapita quanto chiesto. La protagonista è pure brava: per essere una donna che ha buttato alle ortiche il proprio matrimonio per non voler avere figli, sfoggia una sapienza e un istinto materno da manuale appena Tumi entra nella sua vita. Senza contare che il bambino si esprime con il linguaggio dei segni, ma per una che parla undici lingue è un gioco da ragazzi. Da ultimo, la protagonista è anche fortunata: nonostante il marito abbia messo incinta un’altra e con lei progetti di rifarsi una vita, la nostra eroina vince (nell’ordine) uno chalet tutto di legno, che si fa installare nel villaggio della nonna, a Est; e una cifra stratosferica alla lotteria nazionale. Niente di meglio per lasciarsi dietro marito, amante e amica cara.

Se la donna è un’isola, in questo romanzo è un susseguirsi di frane, smottamenti ed esondazioni. L’Islanda, in uno dei mesi meno poetici dell’anno, è dipinta come un acquitrino sabbioso, umido e buio, dove gli animali finiscono accidentalmente sotto le ruote e intenzionalmente nel piatto di chi le ha investite. Essendo un libro sul femminile, sono riconoscibili i cliché uguali a tutte le latitudini, sparpagliati qua e là, usati anche in senso ironico (sono una donna e so stare al mio posto). Dulcis in fundo, il libro si conclude con la descrizione “dei quarantasette piatti incontrati nel corso della narrazione”.

La donna è un’isola è una bella frase evocativa. Se l’isola è l’Islanda non andateci a novembre.

(Pubblicato su Il Sussidiario il 30 novembre 2016)