Attraverso lo specchio

Questo è il titolo della XXXV edizione del Salone Internazionale del libro di Torino. Una volta attraversato lo specchio si trovano ben 500 eventi per tutti i gusti, le età, le tendenze. Il programma si può leggere qui

https://www.salonelibro.it/programma-2023.html

Ci sarò anche io con il mio ultimo libro, La gente è pazza https://www.cooperativaletteraria.it/prodotto/la-gente-pazza/: un libro irriverente che raccoglie quindici racconti, scritti nel corso degli ultimi anni, e che nasce dallo stupore che accompagna l’osservazione dei miei simili e la curiosità, direi antropologica, di comprendere fino a dove possiamo spingerci. Come si dice, la realtà supera sempre la fantasia e, oggi come oggi, è difficile inventare qualcosa prima che la si legga sui giornali. Per uno dei racconti è stato proprio così … chissà se qualcuno indovina quale.

La novità non sta solo nel libro ma anche nell’editore, FuoriAsse Edizioni, piccola gioia che condivido con Caterina Arcangelo, filosofa e compagna di marachelle culturali. Con la neonata FuoriAsse Edizioni seguiamo il concetto “se non ti piace quello che c’è in giro, fattelo da sola”, e ci divertiamo a pubblicare autori di nicchia che sfuggono nella confusione di un grande mercato editoriale nel quale troppi scrivono. Narrativa e saggistica rilegati nel progetto grafico di Mario Greco, arrivano direttamente a casa tua da qui https://www.cooperativaletteraria.it/fuoriasse-edizioni/

Completa il team lo scrittore e formatore Guido Conti, maestro senza il quale non sarei qui, che con la sua generosità e passione per la letteratura ci guida (ops!) nei nostri primi passi.

I prossimi appuntamenti della gente pazza sono questi

Non siamo pazze, siamo solo FuoriAsse

In alcune parole non c’è pietas

L’edizione di FuoriAsse dedicata alla pietas

“I think one man is just as good as another so long as he’s honest and decent and not a n*gger or a Chinaman. Uncle Wills says that the Lord made a white man from dust, a n*gger from mud and then threw what was left and it came down a Chinaman”.

Harry S. Truman, 22 giugno 1911

Mai come in questo periodo storico le parole vengono usate come armi. Non passa giorno che i mezzi di comunicazione, i social media in particolare, non riportino insulti di ogni tipo da e per personaggi più o meno noti. Facebook, che ha facilitato il deterioramento della comunicazione umana, ha spesso ospitato “accapigliamenti” digitali e veri e propri hate speech, anche tra perfetti sconosciuti che trovano un modo veloce e sicuro per dare sfogo alla propria rabbia attraverso parole pesanti. Inveisco ergo sum. Nella tranquillità di casa propria, mediati dallo schermo, osano scrivere cose che forse di persona non si sognerebbero mai di dire, al punto che Facebook ha dovuto inserire un profanity filter per evitare lo scadimento nell’eccesso.

In fin dei conti insultare in latino significa saltare addosso: la parola forte, nella nostra epoca digitalizzata, equivale a una scazzottata o, se propendiamo per il romantico, a un duello. Già in tempi non sospetti Freud sosteneva che era meglio scambiarsi parole ingiuriose piuttosto che frecce.

Non sarà certo per questo che sulle ingiurie personali c’è chi ha creato non solo uno stile ma anche il proprio approccio politico, stravolgendo una regola non scritta di fair play che vige tra persone educate ed empatiche, che non direbbero mai agli altri ciò che non vorrebbero fosse detto a loro. Quando un aggettivo offensivo viene scelto, lo si fa con il preciso intento di ferire l’altro, perché certe parole non vengono dette a caso e spesso non sono frutto dell’impulsività.

Anche all’interno delle offese c’è una gamma di gravità che non sempre riusciamo a riconoscere: uno dei motivi è che alcuni epiteti sono entrati nel lessico quotidiano al punto che non ci rendiamo più conto della loro pericolosità. Il nostro linguaggio è diventato falsamente informale, in realtà più volgare, e questa volgarità è un terreno fertile per le offese. L’origine di una parola è intimamente legata alla storia di un popolo, alle vicende sociali, alle vicissitudini collettive, e questo vale anche per gli insulti.

Il modo per manifestare il proprio disappunto verso qualcuno, senza scadere nel turpiloquio, esiste. Basta parafrasare, utilizzare un giro di parole che porti il messaggio a segno senza svalutare chi lo pronuncia o offendere chi lo riceve. Si chiama ironia, implica non solo padronanza di linguaggio ma anche un certo acume, doni che non tutti hanno. L’insulto è invece un bene di massa.

Le parole più odiose, dal mio punto di vista, sono quelle razziste. Per rimanere in Italia, la parola terrone ha un effetto che corre su due binari, quello dell’uso colloquiale, a torto ritenuto inoffensivo, e quello dell’offesa pura e dura. La parola, che nel tempo ha subito uno slittamento semantico, non indica solo un individuo proveniente dal Sud, come a metà del secolo scorso, ma un individuo stupido, ignorante, poco civilizzato. La parola infesta ancora i discorsi di molti i quali, pensando a un termine innocuo, lo usano come se fosse un aggettivo qualunque o un elemento folcloristico per colorire la frase.

L’aggravante sta nel fatto che, essendo una parola sfaccettata, per il destinatario rimanda immediatamente alla disparità sociale, alla mancata accettazione, anche alla sofferenza di lasciarsi tutto dietro ed emigrare per la sopravvivenza.

Alcuni la usano arbitrariamente, con scopo offensivo: non sono solo certi liceali a pensarsi superiori perché nati nel nord Italia, o più a nord di qualcun altro, sono anche gli adulti (dai quali gli adolescenti vengono educati) che nel loro discorso immaginario incasellano un essere umano nel cliché che hanno assorbito a loro volta nell’ambiente in cui sono cresciuti, nel quale commenti del genere hanno spianato la strada alla divisione anziché favorire l’avvicinamento e la connessione.

Naturalmente ogni parola offensiva va evitata. Perché l’offesa pone chi la pronuncia su un terreno ripido, in una posizione di falsa preminenza poiché insultare qualcuno è la cosa più facile che ci sia, che non poggia su particolari capacità dialettiche e, al contrario, ha poco a che fare con la propria “superiorità” sia essa intellettuale, sociale, o economica. L’insulto svilisce chi lo pronuncia.

Di recente mi è capitato tra le mani un saggio su una parola forse ancora più controversa, comprensibile anche da noi seppure non sia in italiano, con un bagaglio emotivo corposo e implicazioni sociali molto ampie, che viene tuttora usata per offendere e sminuire, al punto che non la si può scrivere per intero. Mi riferisco alla parola n*gger. Per i non anglofoni si perde la sfaccettatura lessicale tra le parole n*gger e negro. Per molti, entrambi i termini indicano una persona di colore, in realtà non è così. Questa parola è inaccettabile per i neri perché usata dai proprietari di schiavi per disumanizzarli, e spesso non è percepita come un insulto dai non neri. La parola negro, in italiano, deriva dal latino niger, come riporta il vocabolario Treccani:

Négro (letter. ant. nigro) agg. e s. m. (f. –a) [lat. nĭger -gra –grum; v. nero] … Nell’uso attuale, negro (corrisp. all’angloamer. n*gger) è avvertito o usato con valore spregiativo, sicché in ogni accezione riferibile alle popolazioni di colore e alle loro culture gli si preferisce (analogam. a quanto avvenuto in Paesi in cui la questione razziale era particolarmente viva) l’agg. e sost. nero (corrispondente all’ingl. black e al fr. noir)”.

Il saggio “N-word: la parola proibita”, che è stato pubblicato a marzo di quest’anno da Luoghinteriori, è arrivato finalista al premio letterario Città di Castello 2020, e vincitore del Premio Internazionale di Poesia e Narrativa Maria Dicorato (2020-2021), ci offre una visione di ampio respiro su uso e implicazioni del termine negli Stati Uniti. L’autrice, Renata Perretti, fa una carrellata in diversi settori: scuola, letteratura, sport, musica, cinema, corti di giustizia e addirittura la Casa Bianca.

Appare subito chiaro che, al di là della definizione nei diversi dizionari, il vocabolo è stato abusato in termini linguistici: è stato usato non solo per indicare i neri, ma anche per coniare veri e propri modi di dire idiomatici, per comporre canzoni popolari o versi in genere, addirittura filastrocche per bambini, tutto in senso offensivo. Quindi n*gger è l’epiteto più razzista attualmente in uso nel lessico americano, usato con disinvoltura per indicare gli oggetti più innocui, con un evidente intento diminutivo-peggiorativo:

“Le palle da bowling di colore nero sono state chiamate n*gger eggs, il gioco dei dadi n*gger golf, le angurie n*gger hams, i rotoli di biglietti da un dollaro n*gger rolls, la cattiva sorte n*gger luck, il pettegolezzo n*gger news e gli stivali pesanti n*gger stompers”.

Per comprendere l’ampiezza del suo utilizzo, pensiamo al fatto che viene usata con intento offensivo anche per persone non di colore ma appartenenti a minoranze, come le insegnanti bianche nelle scuole pubbliche o gli asiatici-americani soprattutto sulla costa del Pacifico.

Non ci si può meravigliare quindi di ritrovare una parola usata in modo così pervasivo anche in testi che tuttora si leggono nei corsi di letteratura o di storia nelle scuole e nelle università americane. Renata Perretti riporta in modo imparziale il perché sì e il perché no di mantenere la parola nei testi invece di cancellarla. Non tutti la prendono bene. Le persone di colore vorrebbero che la n-word fosse bandita anche dai testi letterari perché nella loro mente è impresso il significato della parola più che il significante, e questo significato rimanda a uno dei momenti più bui della storia umana, fatto di morte e sofferenza. Per loro usarla equivale a dimenticare quella morte e quella sofferenza che non si sono certo arrestate con l’abolizione della schiavitù nel 1865 o con la proclamazione dei diritti civili con il Civil Rights Act del 1964.

L’autrice prende un esempio edificante, quello di “Huckleberry Finn” di Mark Twain, il cui valore letterario è stato soffocato dalle polemiche sull’uso della parola n*gger, ripetuta nel testo ben 219 volte.

Mark Twain scriveva con intento satirico in un’epoca in cui il problema dell’offesa non si poneva perché la sensibilizzazione in questo senso era di là da venire. Come altri hanno argomentato, anche di recente e in ambito cinematografico in fatto di sceneggiatura, per rendere il contesto dell’epoca è necessario far parlare i personaggi nel linguaggio dell’epoca, che era razzista e insensibile. Per amore della filologia la politically correctness deve cedere. Tra le persone di colore celebri, che in fatto di letteratura avevano qualcosa da dire, viene citata Toni Morrison, premio Nobel per la Letteratura nel 1993, che in realtà quei libri si sforzava di leggerli nonostante fossero inquinati da epiteti razzisti.

Dall’altra parte c’è chi invece si è attivato per iniziare un processo di “pulizia” da questa violenza lessicale. Nel 2005 il Rijksmuseum di Amsterdam ha deciso di sostituire 220mila parole politicamente scorrette, tra cui anche negro, dalle descrizioni delle opere d’arte esposte.

Negli Stati Uniti invece la “pulizia” è partita dalla toponomastica di alcuni luoghi del paese:

“Nei nomi come N*gger Lake, N*ggerhead Hill e Old N*gger Creek la parola n*gger è stata sostituita da negro, soprattutto grazie all’insistenza del segretario degli interni Stewart Udall, nel 1963, nei confronti del Board on Geographic Names”.

Questa sostituzione è avvenuta un secolo dopo l’abolizione della schiavitù (1865), appena prima della legge sui diritti civili (1964), segnando l’inizio di un processo assai lento verso l’uguaglianza, almeno sulla carta e poco nella pratica, come ci dimostrano gli “incidenti” in tutti i settori, anche nello sport. Sia nel mondo del football che in quello della pallacanestro ci sono stati momenti bui in fatto di razzismo, con un atteggiamento poco esemplare nei confronti delle persone di colore: nel saggio viene descritta la mortificazione di giocatori neri da parte di bianchi, non solo tifosi ma anche proprietari delle squadre, per i quali un giocatore di colore seppure bravo è considerato “subumano”. Anche in questo settore si è dovuto ricorrere ai ripari dettando delle regole:

“L’articolo trentacinque della National Basket Association Constitution conferisce al commissario NBA il potere di prendere azioni disciplinari (sospensioni o multe sotto i cinquantamila dollari) contro i giocatori per incidenti sul campo e fuori dal campo per condotta non conforme al gioco leale, per condotta che non rispetta le leggi federali o di stato e per condotta che risulta penalizzante e dannosa per il gioco della pallacanestro o per la lega”.

E se Cassius Clay disertava il Vietnam con la famosa frase “No vietcong ever called me n*gger”, venendo condannato a cinque anni di prigione e all’annullamento dei suoi titoli, è anche vero che l’unico regno in cui la parola può essere blandamente sopportata è quello del rap. Ma solo se a proferirla sono dei neri, nella variante nigga, che rimanda a una sorta di affettuoso cameratismo perché ha una connotazione vezzeggiativa ed è accettata solo se spesa nella comunità afroamericana.

E’ vero che la sensibilità cambia con le epoche e con gli intenti e nessuno si scandalizzò nel 1911 quando il presidente Truman si espresse in modo irrispettoso scrivendo una lettera alla sua futura moglie, esprimendo il senso del razzismo applicato a tutto quello che bianco non era. O anche quando Agatha Christie intitolò il suo romanzo del 1939 “Ten little n*ggers” (da noi “Dieci piccoli indiani”), rispetto a John Lennon che nel 1972 cantava Woman is the n*gger of the world. Il suo brano fu bandito dalle radio per la presenza della parola, nonostante le buone intenzioni di assimilare la condizione femminile a quella dei neri.

Purtroppo nonostante le proclamazioni, gli atti, le leggi, le regole, a tutt’oggi il razzismo si presenta con rinnovato vigore e parte dalle parole per esprimersi.

Torniamo indietro e consideriamo per un momento che il fine ultimo di Lincoln non fosse il miglioramento delle condizioni dei neri, e che l’emancipazione riguardasse solo gli schiavi dell’Unione e quindi fosse strumentale ad accrescere il corpo combattente contro gli Stati Confederati. Fino alla fine della guerra Lincoln poté contare su un esercito arricchito di circa 200mila neri:

“My paramount object in this struggle is to save the Union and is not either to save or to destroy slavery” così scriveva in un editoriale nel Daily National Intelligencer.

In ogni caso la sua Emancipation Proclamation promulgata il 1 gennaio 1863 diventò legge nel 1865, a guerra civile conclusa, attraverso il tredicesimo emendamento che dichiarava illegale la schiavitù.

I neri smisero certo di essere schiavi ma la loro condizione migliorò poco. Alla fine del diciannovesimo secolo vennero approvate le leggi di segregazione contro le persone di colore, chiamate leggi di Jim Crow, mutuando il nome da una ballata che sbeffeggiava i neri (Jump Jim Crow, 1828) interpretata da un attore bianco, e in seguito usata come peggiorativo della parola negro. Queste leggi prevedevano naturalmente la separazione tra bianchi e neri in tutti i settori (istruzione, lavoro, trasporti pubblici, sport, attività ricreative). I neri vennero sistemati nei ghetti perché non importunassero i bianchi con la loro presenza, a malapena sopportati purché se ne rimanessero nelle loro case ai limiti delle città. Queste leggi vennero eliminate solo nel 1965 ma, come sappiamo, la condizione delle persone di colore è rimasta molto difficile.

In alcuni stati si manifesta tuttora con violenze di ogni tipo, con la persistente ghettizzazione, con la limitazione dell’accesso a risorse scolastiche e professionali adeguate, con la voter suppression che di fatto rende la popolazione di colore inefficace politicamente, perpetuando così la propria condizione di svantaggio.

Si può cancellare una parola se la società che l’ha coniata continua a ritenerne valido il significato e continua di fatto a reputarsi superiore?

Stick and stones may break my bones

But words will never hurt me

Recitare queste filastrocche antibullismo può aver aiutato tanti bambini (e tanti adulti) offesi a superare il momento. Rimane il fatto che le parole sono pietre, e non è solo un modo di dire. Grazie alle neuroscienze è stato dimostrato che, vivere in una condizione di stress prolungato e causato da violenza verbale, diventa molto pericoloso per il nostro sistema nervoso quasi quanto la violenza fisica al punto da alterare la funzionalità cerebrale, farci ammalare e ridurre il numero degli anni che abbiamo da vivere.

Questo è ancora più vero se lo stress dovuto alle offese, intimidazioni e minacce è prolungato nel tempo.

Gli Stati Uniti sono il posto perfetto per ammalarsi in questo modo, se si appartiene a una minoranza, grazie all’ossessione per il free speech. E’ una delle ragioni per le quali il Ku Klux Klan può ancora esistere, nonostante sia classificata come una hate organization (il cui anno di fondazione coincide guarda caso con quello dell’abolizione della schiavitù). Tutti devono poter dire la loro, anche i white supremacist. La difesa della libertà di espressione è sacrosanta a patto che non diventi una campagna di odio e di abuso verso qualcun altro. Avere un dibattito con chi la pensa diversamente da noi è alla base non solo del vivere civile ma della democrazia stessa. Consentire la brutalità anche solo verbale è invece pericoloso e controproducente.

(history.com)

Se dopo 156 anni dall’abolizione della schiavitù le regole scritte vengono ancora ignorate e boicottate, e una parte della società è fatta oggetto di ripetuti attacchi non solo da parte di privati cittadini ma anche dal braccio governativo che dovrebbe difenderla (la Polizia), e diventa quasi una specie in via di estinzione se deve organizzarsi in un movimento per difendersi (Black Lives Matter), è chiaro che c’è ancora molto da lavorare e che il melting pot rimane la più grande bufala moderna.

La potenza della parola n*gger è per noi poco comprensibile. La sua violenza rispecchia quel fiume carsico mai estinto che vuole l’uomo bianco dominatore incontrastato. Per assurdo bisogna ringraziare Trump per aver reso evidente questo torrente fangoso, per aver portato allo scoperto quell’odio razziale, mai sopito dalla guerra civile, di razzisti e suprematisti che altrimenti avrebbero continuato a bollire nella propria rabbia, nell’intimo delle loro case o attraverso quella parte oscura di Internet. I dolorosi episodi di Washington del gennaio scorso ne sono l’ennesima prova.

Quando ho chiesto all’autrice come mai avesse voluto indagare su questa parola mi ha risposto così:

“Condannata, bandita, cancellata dal dizionario della politically correctness, ma ancora utilizzata in maniera dilagante, la n-word, ovvero la parola n*gger, ha una lunga storia. Sei lettere che in pochi osano pronunciare; sei lettere che hanno ferito, offeso e che continuano a profanare e ad umiliare. Ho deciso di ricercare le sue origini e i suoi sviluppi, il suo uso in letteratura e nella stampa.

Quando la Signora Pittman, da me intervistata a Chicago, mi ha domandato: “Perché mai vorrebbe fare luce su un orribile insulto come n*gger?”, le ho risposto: “Il mio proposito è proprio quello di spiegare, a chi non sa, perché si debba evitare, in ogni modo, di usare la parola n*gger: non sempre la politically correctness ricorre a inutili esagerazioni, il diritto di parola è un concetto basilare e inviolabile della democrazia ma, proprio perché tale, non è da considerarsi illimitato”.

Le parole non nascono dai contesti, sono a nostra disposizione perché possiamo esprimere necessità, sentimenti, disappunto, passione o anche rabbia. Sta a noi trovare quella giusta che immancabilmente dirà più cose di noi di quante ne vogliamo esprimere. La parola ci qualifica. Viviamo in un’epoca in cui è facile trasferire al di fuori della nostra responsabilità gli errori che commettiamo, e accusare la tecnologia, il sovrappopolamento, la disumanizzazione del lavoro e le disuguaglianze sociali per giustificare le nostre frustrazioni. Purtroppo, o per fortuna, il nostro contegno dipende solo da noi. Se scegliamo parole offensive abbiamo fallito come individui.

Lavorare stanca, leggere no

Una volta proposi a un’amica di leggere un articolo su una rivista letteraria perché l’avrebbe aiutata a comprendere meglio un problema che in quel momento la infastidiva. Mi rispose che non leggeva riviste specializzate perché erano troppo astratte e autoreferenziali.

Invece io ho sempre pensato che la letteratura in particolare sia così immediatamente disponibile a qualsiasi essere umano in grado di leggere che sarebbe un’occasione perduta non approfittarne. Una rivista letteraria può essere uno strumento di informazione non solo sul mondo strettamente letterario, passato e contemporaneo, ma può essere una finestra sull’attività umana perché la letteratura rappresenta il cammino dell’uomo mentre avviene. La scrittura, nelle sue varie forme, parla di ciò che egli fa, di chi è, delle sue paure e dei suoi miti. Guardare in quel mondo può fornire spunti, idee e ispirazione, supporto, e talvolta anche riparo.

Il primo maggio è uscito il nuovo numero di Fuori Asse, che sarebbe riduttivo chiamare solo rivista. Lo mettono insieme, non senza sacrificio, tanti professionisti che viaggiano nelle varie dimensioni creative della cultura: dalla poesia al fumetto, dalla critica al cinema, dalla narrativa alla fotografia.

Caterina Arcangelo, direttore editoriale, ci introduce al tema di questa edizione, il lavoro, nell’editoriale che aggancia i successivi contributi, in un tutto che rispecchia il momento attuale, aggravato dalla pandemia che ha scosso anche le economie più solide. Cosa significa vivere la nostra vita con la tecnologia (Avvolti dal cloud di Luca Saltini), e cos’era il lavoro di scrittore per un grande come Giuseppe Pontiggia (Lavorate, lavorate, l’ispirazione arriverà) o per Alberto Arbasino (Nell’officina di uno scrittore di Guido Conti)? Leggiamo del lavoro come sacrificio che salva la dignità (L’estrema tensione morale di Pietro Gobetti, Caterina Arcangelo) ma anche dell’interessante e insolita vita degli asparagi dalla tavola di Giulio Cesare alle tele seicentesche (Dalla natura all’arte, Silvia Tomasi), del fumetto d’autore (a cura di Mario Greco), del cinema incompreso (La morte al lavoro di Gianni Amelio, Luigi Cabras). L’indice è denso di articoli interessanti. Anche se a breve saremo liberi di tornare a girare come delle trottole, una buon lettura rimane pur sempre una buona lettura.

Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore

Mai come in questo periodo si legge. C’è più tempo, si evade dall’ansia, si combatte la noia. I libri si sono moltiplicati sui comodini (o sui dispositivi elettronici) di molti. Oggi possiamo anche festeggiarli perché ricorre la Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore.

E’ importante ricordare non solo l’arricchimento che un libro può portare ma anche il lavoro, la passione, la creatività e l’ingegno di chi sta dietro quelle pagine, di chi le pubblica, di chi le distribuisce e ve le consiglia.

La rivista culturale Gocce d’autore http://www.goccedautore.it/eventi/una-giornata-mondiale-del-libro-virtuale.html ha organizzato una piccola iniziativa virtuale per questa giornata, ne parla Eva Bonitatibus, direttore responsabile. Perché un libro può essere anche ascoltato. Quindi buon ascolto (e comunque buona lettura sempre).

Pagine bianche

Il portico deserto nel centro di Bologna

Ieri mattina ha chiamato lo studio del mio oculista per riprendere un appuntamento cancellato dalla quarantena. Ho provato una sensazione di stupore. E’ come se mi avessero svegliato da un lungo letargo. L’idea di avere un orario da rispettare, prendere l’auto, cercare parcheggio, mettermi in una sala d’attesa e tutto il resto, mi ha messo inquietudine. Si deve proprio uscire? Ho bisogno di abituarmi gradualmente all’idea di tornare alla vita di “prima”, anche se non sarà come prima. Forse quello che si è provato in queste settimane di reclusione è stato un desiderio di ritornare alla normalità.

Come sarà la normalità? Nessuno può saperlo. Quel che ci aspetta sono tante pagine bianche sulle quali scrivere una nuova storia di sopravvivenza.

Quando tutto tornerà come “prima”, perderemo ciò che abbiamo avuto durante questa parentesi tragica, perderemo quel che ci ha forse compensato della sofferenza di una situazione traumatica. Abbiamo avuto una breve visione, dai nostri balconi di abitanti di questo mondo, di quello che c’è quando non ci siamo noi. Ciò che era invisibile è diventato evidente. L’acqua trasparente a Venezia, i delfini che nuotano numerosi e indisturbati, gli animali che timidamente si riprendono gli spazi che noi abbiamo sottratto loro. L’aria pulita che adesso respiriamo, e il colore del tramonto su un orizzonte mai stato così limpido.

La solidarietà tra esseri umani per lenire la sofferenza e tra scienziati per trovare l’antidoto che ci salverà, lo spirito di abnegazione, la capacità di sistemare un ospedale dedicato al virus in una settimana. L’operosità di reinventare un business che altrimenti morirebbe. La calma di lavorare, dando tempo a chi e cosa merita attenzione e dedizione, perché nessun minuto può essere sprecato. Nulla dies sine linea.

Questo vorrei che ci fosse nel dopo. E’ quasi un tributo in memoria di coloro che sono andati, spazzati via da uno scherzo della natura. Perché non vada sprecato niente di quello che (adesso) sappiamo essere possibile. Per scrivere le nuove pagine si possono fare errori, e correggerli. Ma sporcarle sarebbe non solo immorale ma anche distruttivo.

Il tempo ritrovato

Coroni

Un paziente Covid19 trasportato all’Ospedale Spallanzani di Roma (The New York Times)

Mantengo il ritmo del tempo che passa contando i blister dei rimedi che prendo. Ogni giorno prendo una pillola e guardo il vuoto lasciato nel blister. Quando sono a metà mi compiaccio della compensazione vuoto-pieno, penso di essere a metà di qualcosa. Sì ma di cosa? Non si sa. Per la prima volta la mia generazione sperimenta un’emergenza mondiale, la sospensione che non deriva da un conflitto con un paese confinante o tra due super potenze che, sebbene distanti, avrebbero potuto annientarci premendo il tasto sbagliato. Il nemico è invisibile, subdolo, nuovo per la scienza e indecifrabile. Un mostro omicida di forse meno di 100 nanometri che tiene milioni di persone prigioniere in casa, ha bruciato miliardi azzerando le borse di tutto il mondo, è andato da Nord a Sud, da Est a Ovest, ha ucciso il ricco e il povero. Ha dilatato il nostro tempo e improvvisamente non dobbiamo più correre. Dobbiamo stare con noi stessi.  Forse in passato abbiamo immaginato a come sarebbe stato avere qualche giorno di libertà, per poter fare le cose che aspettano da mesi (o anni) in garage, in soffitta, sulla scrivania di casa. Abbiamo idealizzato un pomeriggio o addirittura una giornata da spendere operosamente ma per qualcosa che riguardasse solo noi, che investisse il nostro piccolo cosmo. Una pausa che ci consentisse di respirare. Che bello gironzolare senza meta, perdere tempo, aggiustare la gamba del tavolo da pranzo o pulire i sedici bracci del lampadario della bisnonna, che per la polvere ha ormai cambiato colore. In realtà una volta al dunque, cosa riusciamo a fare? Siamo forse disorientati. In men che non si dica siamo passati dalle decine di impegni settimanali a fissare nel vuoto dal divano di casa. Senza contare i bisogni dei nostri “coinquilini”. Attualmente ci sono case sovrappopolate, abitate da lavoratori nei servizi cosiddetti essenziali che devono cercare di non infettare i propri cari. La casa diventa un fortino, un luogo in cui lo stress assorbito sul lavoro si amplifica. La spina non si stacca mai.

All’inizio abbiamo compensato con una sorta di euforia mediatica collettiva. Abbiamo guardato centinaia di video e foto della “resistenza” e di come noi italiani, popolo molto creativo, stiamo reagendo all’emergenza. Abbiamo cantato sui balconi, abbiamo applaudito chi lavora in prima linea, abbiamo riso di tutte le battute. Il superfluo è andato in secondo piano. Prima riempiamo il frigorifero, alla ceretta o alla visita dal dermatologo penseremo “dopo”. Però il dopo ci appare come un buco nero che inghiotte le nostre speranze. I progetti sono già stati annientati, le speranze rimangono nel silenzio della nostra meditazione solitaria, non dette, vittime di un incantesimo fiabesco. In silenzio sogniamo piccole cose normali, forse banali. Il banale è un lusso che non ci possiamo permettere durante un’emergenza. Salire in auto e andare in centro a incontrare un’amica per un caffè, girare a volto “scoperto” e comprare un paio di scarpe e non le provviste per 3 settimane, organizzare una cena con amici, orario, menu, musica. Ci sembra di pensare il proibito, anzi no, l’illegale. Sogniamo il “normale” di una volta, del quale forse ci lamentavamo per motivi che non ricordiamo neanche più, ma che adesso rimpiangiamo perché quel normale ci qualificava. Eravamo noi, la nostra piccola vita fatta di incontri, lavoro, palestra, spesa, figli, marito, cane da portare a spasso, cinema, teatro. Adesso chi siamo? Tre settimane chiusi in casa sembrano tre mesi. Ci  si aiuta, si cucina insieme, ci si scambiano libri, si mangia e si beve, si guarda una commedia alla televisione per distrarsi, si fa ginnastica in salotto, ci si odia, ci si ama, si ride e si piange.

Galleggiamo in questo limbo dove anche l’orologio, nostro nemico giurato, ha smesso di torturarci. Il calendario con le pagine vuote, prive di impegni, ci guarda algido. Quei numeri dall’uno al trentuno sono muti, senza la pressione delle scadenze, non sfilano veloci e dispettosi come quando, dopo aver smantellato gli addobbi natalizi, ci si ritrovava con le uova pasquali e in men che non si dica sotto un ombrellone. Ecco, i numeri del calendario hanno deciso di andare lentissimi. Lentissimi in quelle giornate quando la casa sembra un call center perché è bello il lavoro da casa e la scuola online ma tutti sono collegati e tutti parlano in video conferenza, tutti! Le ore, d’accordo con i numeri del calendario, rallentano a nostra insaputa, ragion per cui dobbiamo fare almeno sei o sette pasti al giorno. Nonostante il calendario non abbia più così importanza, è chiaro che ci sia un punto preciso nella memoria, il “prima”. Prima del mostro. Nel “dopo” tanti esseri umani non ci sono più, un’intera generazione spazzata via insieme alle nostre certezze da terzo millennio in cui tutto deve essere assicurato a tutti, dai gamberetti a pranzo alla rete wi-fi illimitata. Eccoci invece relegati a togliere le ragnatele negli angoli. In tutto questo vuoto, o questo pieno a seconda dei punti di vista, forse c’è spazio per capire chi essere dopo questa guerra senza guerra. Senza false illusioni, non aspettandosi chissà quali cambiamenti. I cattivoni rimarranno tali e i buoni faranno fatica come sempre. Il tempo ritrovato però non sarà sprecato se impareremo a ri-conoscere tutto quello che “prima” davamo per scontato. Perché siamo su questo sentiero? E’ una domanda legittima che affiora se siamo in difficoltà e cerchiamo di capire quello che non fa parte della nostra esperienza di esseri umani. Adesso, in questo momento di vuoto apparente, sta a noi ricostruirci.

#iorestoacasa

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Toni Morrison, io sono qui

TM NBC News

Toni Morrison (NBC News)

“We are born already and we are going to die. You really have to do something you respect in between”

In un’intervista Toni Morrison ammetteva candidamente che pensare per scrivere le aveva reso possibile stare “qui” e sopportare le calamità ricorrenti nel mondo. Scrivere non era solo un modo per decifrare e sopportare la realtà ma anche di controllarla. “Scrivere per me è controllo, nessuno può dirmi cosa fare, sono io a controllare. E’ il mio mondo, qualche volta il processo attraverso il quale arrivo al punto è difficoltoso e comunque è mio, è libero ed è un modo di pensare. E’ conoscenza pura” (The New York Times).

Chi definisce la sua prosa poetica ha forse letto una cattiva traduzione perché molti dei suoi libri, dal soggetto al linguaggio allo sviluppo, sono duri, spesso macabri. Beloved, il libro che le valse il premio Pulitzer nel 1988, parla di una schiava fuggitiva che uccide sua figlia pur di non farla tornare a una vita di schiavitù e stenti. In questo romanzo, come in altri, non c’è il grembiulone sul vestito a volant della big mammy di Via col vento, o il concetto del buon selvaggio ingentilito; non esiste nessun elemento grazioso o ammiccante che possa rimandare alla presunta grandeur del latifondismo aristocratico. Esiste solo il senso dell’alienazione che il lettore prova quando viene sbalzato in un ambiente totalmente estraneo e violento, senza preavviso. Come succedeva agli schiavi. E’ il luogo in cui il controllo dell’individuo esiste nelle due direzioni, uguali e contrarie: essere fuori controllo e sotto controllo allo stesso tempo.

Non è un caso che Toni Morrison abbia ricevuto il premio Nobel per la Letteratura (1993), prima donna di colore. Oltre ai romanzi, una parte importante della sua opera è consistita nel far emergere voci inascoltate con molto da dire, attraverso la pubblicazione del volume Contemporary African Literature (1972), o nell’illuminare attraverso il suo lavoro editoriale alcuni dei talenti afro-americani più significativi (Angela Davis, Toni Cade Bambara, Muhammad Ali). Questo lavoro di scandaglio a beneficio del lettore, per poter meglio apprezzare la sostanza della black life negli Stati Uniti, trova il suo apice in The Black Book (1974), una raccolta di saggi, foto e documenti sulla vita dei neri dall’epoca della schiavitù agli anni Settanta, un collage storico di rievocazione per riempire i vuoti di memoria o di conoscenza di vecchi e giovani, bianchi e neri. Il tono della Morrison, preciso e distinto, come lo ha definito Barack Obama conferendole la Presidential Medal of Freedom (2012), conduce il lettore sul sentiero impervio delle verità dolorose, della memoria storica riaffermata con immagini forti e violente, perché così sono state vissute tante esistenze. E tuttora lo sono.

Toni Morrison era “presente” non solo come scrittrice. L’elenco dei riconoscimenti è lungo una pagina e riguarda non solo l’attività di scrittrice ma anche quella di docente universitaria (State University of New York, Rutger, Cornell, Princeton). Tutto quel che faceva diceva “io sono qui” come individuo e porto questi valori, questi ricordi, queste tradizioni che fanno parte della storia degli Stati Uniti d’America. A una giornalista britannica che le chiedeva se avrebbe mai reso più significativa la presenza dei bianchi nei suoi romanzi, rispose che lo aveva già fatto e chiedeva a sua volta se si rendesse conto di quanto razzista fosse quella domanda, perché nessuno chiede a un autore bianco se inserirà dei neri nella propria narrativa.

Seconda di quattro figli, Chloe Anthony (Toni) Wofford nasce nella cittadina integrata di Lorain (Ohio) nel 1931. Grazie ai suoi genitori, un saldatore e una casalinga, può coltivare la tradizione orale di canzoni e racconti popolari afro-americani, la lettura e i classici, studiando anche il latino. In prima elementare, nella comunità integrata in cui vive, è l’unica bambina di colore e l’unica che sappia già leggere. Il primo contatto con la realtà segregazionista l’avrà una volta a Washington per gli studi universitari alla Howard University, e dovrà fare i conti con le leggi di Jim Crow, in vigore fino al 1965.

Quando Toni Morrison pubblica il suo primo libro è una madre single con due figli e un lavoro nell’editoria. E’ la prima editor (donna) di colore presso Random House. Per scrivere deva alzarsi alle quattro del mattino e rubare il tempo al resto del giorno. In questi giorni si sprecano le citazioni delle sue frasi, vere perle di saggezza, ma quello che colpisce di più sono alcune dichiarazioni. “Negli anni Ottanta il dibattito era ancora confuso: parità di salario, parità di trattamento, accesso alle professioni e all’istruzione … e la possibilità di fare scelte senza essere marchiate”. Non sembra che trent’anni dopo sia cambiato molto.

Quando i giovani sono i veri adulti

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Basterebbe far parlare i cartelli che stamattina sfilavano alle 9 per il centro di Bologna (e non solo qui). Giovani studenti ma anche insegnanti e genitori. Si torna adolescenti, all’entusiasmo che ci animava per le grandi cause che non sempre piacevano agli adulti. Come ieri, i “grandi” storcono il naso davanti a questi fenomeni che coinvolgono le masse di giovani.

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Per avere il polso della situazione basta leggere Twitter o Facebook. A colazione trovo un commento di Giuliano Ferrara  (#nogreta) che mi rende difficile la digestione di un bell’uovo sodo. Dunque, non a tutti può piacere un personaggio pubblico, soprattutto se ha 15 anni e dice delle cose che i politici adulti avrebbero dovuto fare da un po’ di tempo. Adesso, sulle treccine non mi soffermerei, perché ognuno ha le proprie preferenze estetiche, e Ferrara avrà una qualche ancora negativa sui capelli se si impunta sulle trecce di un’adolescente. Però avrebbe dovuto essere meno ellittico e illuminarci sul mistero di quel mondo falso e bugiardo perché la dietrologia a prima colazione non fa bene. Il mondo falso e bugiardo non è una novità, se ci sono le fake news è perché esistono i creduloni che se le bevono e i politici che le raccontano. Poco dopo (ero alle prese con una torta di mele), leggo un altro twit, questa volta di Marina Terragni, sulla fragilità di Greta, sul fatto che la povera ragazzina potrebbe replicare il destino di due altri giovani attivisti (morti suicidi). Quando si dice l’ottimismo degli adulti … Questo twit mette un’ipoteca sulla capacità della ragazza di avere una forza che le consenta di “sopportare” delle responsabilità. Comunque, non avrei mai pensato di dover ricorrere a un anti acido di prima mattina, non tanto per quello che mangio ma per quello che leggo. Anche se è impossibile conoscere Greta di persona, se ne può avere un’idea guardando il suo Ted Talk di Stoccolma nel quale, tra l’altro, ammette di avere una diagnosi di sindrome di Asperger e questo, ai miei occhi, la rende ancora più coraggiosa e adulta.  Più avanti nella giornata, con l’uovo ancora sullo stomaco, leggo post su FB dove il lessico si fa più pittoresco e la ragazza viene dipinta come Pippi Calzelunghe de noantri, oppure una cretina, una poveretta.  

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Il riscaldamento globale è diventato un affare politico e non appartiene più alla scienza. Il fatto che degli adulti trovino assurda la campagna di sensibilizzazione perché condotta da giovani è emblematico. Da persone con esperienza ci si aspetterebbe un atteggiamento cautelativo e di prevenzione maggiore rispetto ai danni che hanno contribuito a portare al pianeta. Spesso ci si lamenta del fatto che i giovani siano svogliati e disinteressati, ieri mattina non è stato così.  Saranno loro a scegliere i politici e i legislatori attingendo da giovani altrettanto motivati e soprattutto informati. Spero che a loro vada meglio.

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L’importanza del vuoto per Richard Ford

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Frank Bascombe attraversa come protagonista le quattro storie di questo libro (in italiano Tutto potrebbe andare molto peggio, Feltrinelli 2015) e si ritrova suo malgrado testimone di certe disgrazie della vita. Una su tutte, l’uragano Sandy, eclissa le altre tra cui un duplice omicidio e la morte imminente di un conoscente. Tutto sembra seguire l’invecchiamento di Frank: dai riferimenti alle sue vertebre cervicali sub lussate che influenzano i suoi movimenti e tormentano anche le azioni più semplici, ai cambiamenti che i suoi conoscenti fanno, non sempre in positivo. Un esempio, il pescivendolo di lusso Arnie, co-protagonista del primo racconto, è trasformato nel volto, femminilizzato da una chirurgia plastica che fallisce la missione di ringiovanire. Come la tecnologia, che pure pervade la vita spesso in modo sbagliato e inquietante, la chirurgia estetica induce aspettative miracolose ma ottiene risvolti indesiderati, grotteschi e peggiorativi.
La perdita dell’innocenza è il fil rouge del romanzo che, come altri tre, vede Frank Bascombe protagonista disincantato rispetto a una realtà “altra” da come viene descritta sin dalla scuola materna. Il melting pot americano, sogno promesso (ai bianchi), si svela sogno mancato e diviene incubo nei quartieri ghetto per neri e latinos (e italiani) nonostante il doppio mandato di Obama, del quale Frank è un sincero sostenitore. Ex scrittore fallito, si ricostruisce un’identità come agente immobiliare in New Jersey e così impara a conoscere, e riconoscere, gli uomini nelle proprie debolezze e contraddizioni, dal cartello Voto per Romney nell’immancabile praticello verde alla standardizzazione di ogni pratica (chirurgica, religiosa, professionale, educativa, relazionale). Tutto è espressione dell’America in cui le dissonanze aumentano insieme ai suoi anni.
I quattro racconti sono collegati tra loro, un modo congeniale all’autore, acclamato dall’accademia e dalla Paris Review come maestro nel genere molto amato e apprezzato negli Stati Uniti. Questo modello, utilizzato anche negli altri romanzi di Ford, rende la lettura scorrevole per il lettore che, in alcuni passaggi, potrebbe sentirsi sovrastato dalla sua logorrea creativa che contrasta lo stile altrimenti asciutto. Forse questa asciuttezza gli è valso un posto nel Dirty Realism di cui faceva parte anche Carver. Forse. Se pensiamo che l’asciuttezza chirurgica di Carver non era proprio endogena, quella di Ford pare essere il risultato non tanto di un editor con le forbici ma di un acido disincanto di cui è “vittima” e di cui rende Frank suo ambasciatore.
Anche se Ford non ammette come Flaubert Madame Bovary c’est moi, diventa chiaro che Frank Bascombe sia il suo alter ego non solo, o non tanto, nelle vicende autobiografiche ma soprattutto nel riflettere la stanchezza rispetto all’inutilità di certi gesti umani. Lo strumento attraverso il quale questa fatica emerge sono i dialoghi che Frank deve sostenere con “gli altri”: la scelta delle parole che accelerano la fine dell’incontro non piacevole con Arnie, che ha appena perso una casa da milioni di dollari a causa dell’uragano; la finta falsità di nice guy con cui accoglie Miss Pines, che si reca in pellegrinaggio in casa sua dove il di lei padre ha freddato madre e fratello trent’anni prima; la mancanza di coinvolgimento emotivo (forzato) per la sua ex moglie malata, per quanto ancora attraente. Le parole che Frank mette insieme per le sue relazioni con l’esterno non sono altro che la registrazione puntuale del disincanto sulle (promesse) potenzialità umane frantumate dalla realtà. Oppure dell’irrazionale necessità dell’uomo di “mettersi in pari” in camera caritatis, come fa un altro suo conoscente, che non vede e non sente da anni (perché Frank non ha amici, ha solo conoscenti). Eddie, malato terminale, chiama Frank al suo capezzale non tanto per dirgli addio quanto per svelargli qualcosa che un uomo non vorrebbe sentirsi dire mai. Frank riflette la stanchezza di Ford rispetto a eventi che richiedono uno sforzo di omologazione: esiste una reazione standard quando un conoscente (che due giorni prima ha annunciato la sua morte imminente per radio) ti dice: ho scopato tua moglie?
Dunque Frank usa le parole per tenere a debita distanza gli altri esseri umani e forse anche Ford avrebbe dovuto usare parole invece di sputare addosso allo scrittore Colson Whitehead in seguito a una recensione non positiva. (Whitehead, a dispetto del nome, è un nero educato a Harvard). La distanza esiste nel vuoto dovuto alle differenze antropologiche, alle calamità naturali, alle malattie, ai diversi credo religiosi e politici, al colore della pelle, al ceto. Che novità. Frank è abitato da una sorta di vacuum che è il prodotto non tanto dell’eccesso di marketing nella vita degli americani quanto dal suo riconoscimento e smascheramento. E’ come il vino per gli alcolisti che ne sono usciti, meglio non averlo in casa.
L’unico momento in cui Frank si rivela “umano” è nel modo forse meno politicamente corretto che se ne stra-impipa della distanza, quando la sua mascolinità riemerge, seppur mitigata dalla fisiologia, nel vedere dei quadri raffiguranti frutti affettati che invece a lui sembrano vagine umane.
E se la vita si riflette nella letteratura, un uragano non lascia solo il vuoto sulle spiagge, portandosi via condomini e ville. Il vuoto è quello spazio freddo dell’anima da cui conviene ripartire. Come risponde Frank al personaggio antipatico di turno che gli contesta quanto poco succeda nei romanzi di Naipaul. Bisogna essere disposti a vedere quel che non è evidente.

Scritto nel 2014, Potrebbe andare molto peggio (il titolo italiano mantiene la promessa in modo predittivo) prima che il fallimento del sogno americano si concretizzasse nel suo attuale presidente, ne contiene tutti i semi che Ford ben dispone in forma narrativa preconizzando il disastro politico attraverso la vita quotidiana, i tic personali e il disastro naturale. La serie di Frank Bascombe nasce con The Sportswriter (1986, uno scrittore fallito diventa giornalista sportivo, proprio come Ford) e prosegue con The Independence Day (1995), che del primo è il proseguimento letterario e ottiene un grande successo tanto da portare all’autore entrambi i prestigiosi premi PEN/Falkner Award e Pulitzer Prize for Fiction, insieme al riconoscimento come autore di racconti, il Rea Award for the Short Story, e prosegue con Lo stato delle cose (2006). Dagli anni Novanta in poi Ford vede la sua rinascita come scrittore e inizia a collaborare con diverse università per corsi di scrittura creativa, e con editori in qualità di curatore di raccolte di racconti (Best American Short Stories, Granta Book of American Short Story).

(Pubblicato da Il Sussidiario il 29 dicembre 2017)

Qui abita l’amore

A volte le cose iniziano così, quasi per caso. Si raccoglie una conchiglia, poi un’altra, poi un’altra ancora. La si sciacqua e la si osserva a casa, lontano dal suo habitat. Si notano particolari che al mare, sotto il sole, sono sfuggiti. Un riflesso madreperlaceo, l’architettura perfetta, i colori sfumati, la trama cangiante, la consistenza dura ma frangibile. Si tiene in mano, il suo peso incospicuo, si accarezza sperando che il guscio sveli qualcosa come in un incantesimo rivelatore. La conchiglia è simbolo del mistero nascosto, la accostiamo all’orecchio per sentire un mare che non c’è eppure lo sentiamo, ci crediamo. Siamo rapiti, presi nella rete come tante di loro, imprigionate nei tramagli dei pescatori.

 

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Nautilus pompilius

Quando Gabriele Sercia inizia questo gioco è poco più di un bambino, e il valore di quel che raccoglie gli è sconosciuto. Pian piano si accorge di avere centinaia di esemplari e per sua fortuna conosce, negli anni Ottanta, un naturalista siciliano, Ignazio Sparacio, grande entomologo ed eccellente malacologo, che lo indirizza verso un collezionismo fatto su basi scientifiche. Così Gabriele inizia a catalogare il suo piccolo grande patrimonio.

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Gabriele Sercia

Con il passare degli anni quella che è cominciata come una raccolta “romantica” su questa o quella spiaggia, diventa una vera e propria passione, fatta di ricerche pazienti, scambi con altri collezionisti, collaborazione con i pescatori. “Da una trentina d’anni lo faccio con metodo” dice Gabriele quando lo incontro a Favignana nella casa museo intitolata a suo padre Matteo. Quando entro e mi guardo intorno, capisco subito che non basta una sola visita per apprezzare la bellezza e la varietà della collezione, forse neanche due. Non ci sono solo conchiglie ma anche coralli, fossili, granchi, pesci, anche di acqua dolce, nostrani ed esotici.

 

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Sphaerechinus granularis

La testa di uno squalo mi accoglie all’ingresso.

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Di fronte, in una vetrina illuminata, un pesce violino mi guarda con un ghigno. “Lo sa che gli orientali, una volta morto, ne manipolano le fattezze e lo chiamano pesce diavolo?”. Non lo sapevo. Per gli esperti si chiama Rhinobatos rhinobatos. “Negli anni Settanta ne venne ritrovato un esemplare in una vecchia soffitta e un mattacchione si fece venir in mente di spacciarlo per resti di un alieno …”.

 

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Pesce violino (Rhinobatos rhinobatos)

In effetti si presta, ha una sua espressività, come il piranha che sembra ringhiare da un’altra vetrina. “Quando gli indios li tirano fuori dall’acqua emettono dei suoni gutturali che sembrano proprio delle minacce”.

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Un pesce Piranha

Allora non si può dire che gli manchi solo la parola …

L’amore per la malacologia, oltre a compensare l’aridità del lavoro da bancario che Gabriele ha svolto fino alla pensione (si definisce un ex impiegato fantozziano), si intreccia con l’amore vero, quello di una vita. Giusi, la sua compagna di allora, ha animato e sostenuto la ricerca e la raccolta di esemplari per anni. E’ un elemento sentimentale ma la data dei ritrovamenti è quasi sempre un sabato o una domenica perché Giusi e Gabriele potevano dedicarsi a questa passione solo durante il fine settimana o nei giorni festivi.

Insieme andavano al porticciolo di Isola delle Femmine, piccolo paese vicino Palermo, ad aspettare che i pescatori tornassero e scaricassero nei carretti le reti nelle quali, oltre a gamberetti, pesci e alghe, trovavano anche conchiglie ed esemplari da collezione. Quelle sere spese sotto la luce del lampione a controllare, cercare, sperare, sono ricordate da Gabriele con nostalgia e commozione perché Giusi non c’è più. La storia di questa collezione ha un’unica lunga pausa, la malattia di Giusi, con le assenze dal lavoro e le cure a Parigi. E’ legata alla vita ma è segnata anche dalla perdita.

“I miei superiori in banca mi hanno sostenuto in questo lungo periodo di assenza dal lavoro, con comprensione e pazienza con un’umanità introvabile oggi. Di ciò chiedo solo che il Cielo li ricolmi di benedizioni”.

Adesso Gabriele è il testimone di quella raccolta durata anni, ne è il custode premuroso. Non pensa al valore intrinseco, pensa all’amore che c’è dietro, alla passione che ha animato la ricerca dell’impossibile perché una conchiglia non ha solo un valore scientifico o economico, ne ha anche uno sentimentale.

La conchiglia più preziosa, per Gabriele, non è esotica ma mediterranea, trovata proprio grazie alla caparbietà di Giusi. Quella sera (il 5 gennaio del 1992) solo una barca era uscita in mare tornando con poco e niente, a detta del pescatore. Ma Giusi non si arrendeva facilmente e aveva continuato a rovistare nella posidonia. Con grande stupore di Gabriele ecco materializzarsi un esemplare intatto e rarissimo, per quella zona, di Babelomurex benoiti, che adesso dimora nel cassetto delle Coralliophilidae della casa museo.

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Esemplari di Coralliophilidae

Qui i doni del mare e della sabbia sono disposti in vetrine, alcuni sistemati su supporti rotanti, come un bell’esemplare di Coralliophila pyriformis. Oppure sono tenuti in cassettine di plastica trasparente, catalogati e separati ordinatamente, e riposti nei cassetti.

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Coralliophila pyriformis

Aprirne uno vuol dire fare un viaggio, tuffarsi nell’acqua marina senza bagnarsi, in un mondo sommerso fatto di parole latine. Ogni oggetto racconta una storia diversa non solo perché è diverso da un altro ma perché è arrivato in quel cassetto attraverso mani e modi differenti.

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Esemplari di Cipreide

 

Gabriele abita in un appartamento da lui fatto costruire sopra la casa museo che era la casa dei nonni, poi passata a Matteo, suo padre, che la usava per la villeggiatura. La famiglia era originaria di Favignana ma abitava a Palermo. La casa è piccola e lui ancora si meraviglia di come potessero vivere tutti insieme i nonni con i loro sei figli in così poco spazio. Altri tempi. Gabriele l’ha riscattata dalla sorella con qualche incomprensione e amarezza “ma le difficoltà nel conquistare qualcosa accrescono il valore di ciò che si è conquistato”.

Alcuni paesani pensano che Gabriele sia strampalato perché sfrutta la “proprietà” nel modo sbagliato. In quella casa “gioca” con le conchiglie invece di approfittare del recente sviluppo del turismo a Favignana. Un bed and breakfast porterebbe un certo reddito …

Invece visitare il museo non costa niente, nel vero senso della parola. Gabriele ci tiene a far sapere che la sua attività è senza scopo di lucro e che i visitatori possono lasciare un’offerta libera. Come libera è l’offerta per acquistare la bigiotteria che fa con le sue mani: orecchini, collane e altri monili con conchiglie, soprammobili, souvenir originali e autentici.

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Collane con agata, occhio di Shiva, conchiglia e pietra di sole

“Non ho più le energie di un tempo ma continuo l’attività perché io sono un tramite. E’ Giusi che mi ha fatto fare tutto questo, anche adesso che non c’è più vado avanti per lei. Io sono solo uno strumento”.

Dalle istituzioni locali Gabriele ha avuto solo un sostegno dal direttore dell’Area Marina Protetta delle Isole Egadi, Stefano Donati, nei limiti delle sue competenze, inadeguate per una struttura come la casa museo. Un caso non isolato se pensiamo che il nostro patrimonio artistico e naturalistico, invidiato in tutto il mondo, va incontro a un degrado inesorabile dovuto all’incuria.

“Anche santa Teresa d’Avila diceva che gli uomini hanno bisogno di riconoscimenti terreni per andare avanti”. Gabriele sorride mentre monta sul microscopio una micro conchiglia, perfettamente conservata e sistemata in una scatolina con altre minuscole conchiglie. Solo a un occhio inesperto possono sembrare uguali, ma i nomi sono diversi: Pusillina radiata, Setia ambigua, Pusillina interrupta. Piccole e perfette rappresentano un mondo che continuerebbe a rimanere nascosto non fosse per questa collezione. Un vero tesoro.

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Piccoli esemplari di Pusillina da guardare al microscopio elettronico

Osservo la compiutezza della Pusillina e provo lo stesso sentimento di quando guardo un neonato, piccolo eppure completo.

Questo posto è pieno di amore. Una persona che ha dedicato la sua vita alla conservazione di qualcosa che la natura regala dimostra un grande amore. Anche la nuova compagna di Gabriele, Adriana, partecipa in modo diverso a quest’attività, con la sua preziosa presenza, il cui valore esorbita quello delle tante pregiate conchiglie.

Per uno sguardo insolito sulle Isole Egadi MadeinEgadi